1° incontro
La grazia del Giubileo: ricominciare

 

 

Questo pomeriggio nella chiesa delle Clarisse ad Abano per il primo dei tre incontri sul Giubileo.
Il tema affidatomi: “La grazia del Giubileo”.
Mi sono bastate tre parole. La prima: ricominciare. Mi sembra sia questa la parola centrale del Giubileo, anche guardando al Giubileo indetto dalla Bibbia che ne raccomanda la convocazione ogni 50 anni.

 

Secondo il libro del Levitico 25, 8-13 durante il cinquantesimo anno
• I debiti sono cancellati.
• Gli schiavi sono liberati e le famiglie possono riunirsi.
• Le terre confiscate o vendute tornano ai proprietari originali.
• I campi restano incolti per permettere alla terra di riposare.

«Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà».

Forse gli ebrei non hanno mai messo in pratica queste norme. Esse costituiscono come un’utopia, un sogno di rinnovamento totale, il bisogno di rinnovare l’alleanza con Dio, il desiderio che venga offerta la possibilità di ristabilire equità e armonia nella comunità, ricordando che tutto appartiene a Dio e che l’uomo è solo un amministratore dei beni della creazione. Era un’offerta di grazia data a chi era rimasto indietro, un modo per non dimenticare nessuno, perché nessuno rimanesse schiacciato dai propri fallimenti o ingabbiato dentro logiche di morte. Potremmo dire che era un tempo che offriva la possibilità di ripartire, una sosta per ricominciare a vivere e a sperare; perciò un tempo di grazia.

Anche Gesù ha indetto un Giubileo. Luca 4, 16-21: «Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore
.
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Cos’è tutta la vita pubblica di Gesù se non la proclamazione della “buona novella” che saremo finalmente liberi? la proclamazione del “regno di Dio”, «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace»?

L’Anno Santo risponde a questo desiderio che ogni persona ha in cuore: concedetemi un’amnestica totale dei miei sbagli, dei miei fallimenti, che non debba portarmeli addosso per sempre, sono un peso che non mi permette più di andare avanti; datemi la possibilità di essere nuova, non continuate a giudicami per quello che ho fatto di male, lo riconosco, ma adesso basta, fatemi ricominciare…

È questo il Giubileo, l’anno di grazia del Signore: azzerare per ricominciare.

2° incontro
“Se tu conoscessi il dono di Dio”

Chi è capace, Signore, di comprendere tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti […] perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Hai nascosto nella tua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla” (S. Efrem, il Siro).

Se è vero che nulla è a caso, possiamo essere tutti certi che oggi ognuno di noi “doveva” passare per questa Samaria. Non c’è nulla di casuale e anche questa volta c’è un fine ben preciso. La cosa sicura è che Gesù oggi chiede da bere proprio a me, lo chiede a ciascuno di noi. Non so se risuona anche nel vostro cuore la domanda di questa donna: «Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una straniera? e davanti al Vangelo e alle esigenze del Regno di Dio tutti facciamo l’esperienza di essere un po’ “stranieri”, distanti, inadeguati.

Se c’è una cosa che non smetterà mai di stupire è proprio che Gesù vada ad attingere, a chiedere… a chiamare… sempre lì dove il luogo, la situazione, la persona sembra essere la meno adeguata… e non solo “sembra” ma lo è realmente (pensiamo alla chiamata dei Dodici). Oltre a sorprenderci, questo modo di agire di Dio è per noi fonte di grande speranza. Ci dice S. Paolo che ciò che è debole e disprezzato è ciò che Dio ha scelto (cf 1Cor 1,28). Quando sentiamo che la nostra fragilità, la nostra debolezza è interpellata, allora possiamo essere certi che c’è un passaggio di Dio, poiché il mondo risponde ad altre logiche ben più appariscenti ed efficienti; l’agire di Dio è, invece, inconfondibile proprio per l’elezione della fragilità.

Su questo incontro tra Gesù e la donna samaritana sono stati scritti fiumi di parole! Questa sera condividiamo solo qualche “goccia” del dono che a nostra volta abbiamo ricevuto e che ha placato la nostra sete e lo facciamo con la consapevolezza che la Parola rimane una fonte inesauribile.

Aprendo il Vangelo di Giovanni viene subito da pensare che da un capo all’altro è colmo di acqua: dal Battesimo fino alle apparizioni del Risorto sul mare di Tiberiade. E questo brano si gioca tutto attorno al bisogno di acqua, alla mancanza di acqua e all’abbondanza di acqua. Ci accostiamo a questo brano con la chiave d’accesso della “rigenerazione”, visto che proveniamo, al capitolo precedente, da un contesto battesimale, di “rinascita dall’alto”, da “sangue e acqua” dice Gesù a Nicodemo e pochi versetti prima il Battista ai suoi discepoli: «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna: Egli è colui che senza misura dà lo Spirito». Allora ecco spalancata la porta per accedere al nostro brano, per entrare in questo “senza misura” che ci stupisce e a volte può anche intimorirci, ma che fondamentalmente ci attrae.

Facciamo dei salti perché non abbiamo qui la possibilità e il tempo di soffermarci su tutto, ma abbiamo l’impressione che Gesù, lasciando la Galilea, si stia allontanando da una modalità di battezzare legata alla purificazione rituale ebraica. Che significa questo? Che Gesù non farà più rinascere? Tutt’altro! Quanto accade nell’incontro con la Samaritana inaugura un nuovo modo di rigenerare: dal Battesimo con acqua alla rigenerazione mediante l’acqua della Parola (cf Ef 5,26).

La scena che contempliamo si svolge in pieno mezzogiorno, quando la luce è al suo massimo splendore. Ma questo non significa che ci si veda meglio, infatti la troppa luce a volte non permette di vedere. Così, c’è un buio interiore che può abitarci anche in pieno mezzogiorno. E sarà proprio la conversazione con Gesù a dare alla luce – usiamo la similitudine del parto perché questa donna davvero rinasce dall’alto – l’esistenza di questa donna, proprio come si porta alla luce l’acqua tirandola su dalle profondità oscure di un pozzo. Quante volte facciamo o abbiamo fatto l’esperienza di sentirci in un pozzo profondo, forse di  delusione o di solitudine… e puntualmente la corda che viene calata giù sembra non essere per noi. E se, questa sera, quella corda fosse proprio per te?

La scena dell’incontro tra Gesù e la Samaritana si svolge presso un pozzo e questo pozzo si trova in un luogo significativo per Israele. Sicar è identificata con l’antica città di Sichem dove Giosuè aveva rinnovato l’alleanza con il Dio fedele alle promesse e invitava il popolo a servire il Signore e a non adorare gli dei stranieri (cf Gs 24). Questo pozzo è quello dato da Giacobbe a Giuseppe, il figlio prediletto, quello avuto in vecchiaia (Gn 37,3). Dunque siamo in un luogo che ci parla di alleanza e di predilezione. Inoltre, nella Scrittura, il pozzo è luogo di incontro, di affari, di scambio, ma anche di matrimoni, di corteggiamenti… E questo dialogo tra Gesù e la Samaritana sembra proprio svilupparsi tra corteggiamento e fraintendimento. Abbiamo mai fatto caso che le relazioni vere, quelle più significative a volte nascono proprio da un iniziale fraintendimento? Questa considerazione ci aiuta a mettere in conto che le relazioni, per diventare significative, devono crescere e maturare. Più ci si conosce, infatti, e maggiore è la capacità di comprendersi e sempre di meno servono le parole, perché ci si intuisce.Dunque, questa donna va ad attingere acqua nell’ora più calda del giorno; un’ora inconsueta. Di solito si andava quando il sole non picchiava, al mattino o alla sera. Perché avventurarsi in un’ora in cui è sconsigliato mettersi in cammino, sotto il sole di mezzogiorno? Forse il bisogno di questa donna è talmente grande, la sua sete abissale, che non le importa che faccia caldo. Sta cercando a tutti i costi qualcosa che la possa dissetare. Non so se vi è mai capitato di provare un bisogno così “bruciante” da spingervi a varcare la soglia dell’irragionevole o dello sconveniente.

«Dammi da bere». Tra Gesù e la Samaritana c’è una distanza incolmabile; tra giudei e samaritani c’era un vero e proprio odio; i samaritani erano ritenuti eretici e impuri per la loro contaminazione con i culti assiri e non mancavano episodi di violenza. Questa donna è figura del suo popolo e i suoi cinque mariti rappresentano bene i cinque popoli mandati dall’Assiria ad occupare le terre di Israele dopo la deportazione del popolo. I superstiti e poi i rimpatriati avevano abbracciato i loro culti pur continuando a venerare il Dio di Israele. Ecco perché Gesù le dice: “Quello che hai non è tuo marito” … Altro che “Non avrai altri dei di fronte a me” (Es 20,3), come recita il primo dei comandamenti.

Nonostante la rottura di relazioni tra giudei e samaritani, Gesù e questa donna si incontrano. Non dimentichiamolo mai: non c’è niente che possa impedire a Gesù di incontrarci! Cosa rende possibile l’incontro tra Gesù e la Samaritana? Il fatto che entrambi abbiano sete. Tutti noi, credenti o meno, santi o peccatori, sani o malati, tutti abbiamo gli stessi bisogni. Tutti cerchiamo la felicità, tutti abbiamo sete: sete di essere amati, sete di trovare un senso alla nostra vita, sete di essere accolti, di essere stimati, sete di essere riconosciuti, sete di appartenere a qualcuno. Anzi, forse questa sete di appartenenza è quella che arde al fondo di ogni altra sete, perché è iscritta nella nostra natura, nelle nostre membra che portano in sé il soffio divino. Un’appartenenza, dunque, iscritta nel nostro essere creati a immagine e somiglianza di Dio e che è l’anima di ogni nostra inquietudine, di ogni nostra sete. Allora, questo incontro ci rivela anzitutto che quel che unisce le persone non sono le chiarezze che possediamo e tanto meno le competenze che acquisiamo, quanto le nostre domande, i nostri bisogni, la sete che portiamo nel cuore.

E quello che fa Gesù è il modo migliore per superare gli attriti, per accorciare le distanze: condividere e consegnare il proprio bisogno. Gesù, pur partendo dalla sua sete fisica, parla a questa donna di un’acqua diversa, misteriosa e la porta pian piano a una riscoperta di fede e la porta a rileggere la propria storia, il proprio mondo relazionale.

A questa donna Gesù sembra confidare quella sua sete che continuerà ad ardere fino al grido sulla croce, nella sua “ora”: «Ho sete!». Dice S. Agostino: “Gesù ha sete della fede della Samaritana” … “Un abisso chiama l’abisso al fragore delle tue cascate” (Sl 42,8). Il dialogo sembra avanzare per fraintendimenti, ma questa donna riconosce il richiamo: è unica la sete come unica è la fede; l’incontro con Gesù ridesta nel suo intimo il grido del salmista: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente, quando vedrò il volto di Dio?” (Sl 42,1-2).

Quest’uomo misterioso, scrive ancora S. Agostino, “domanda da bere e promette di dissetare. È bisognoso come uno che aspetta e abbonda come chi è in grado di saziare”. Lei lo intuisce, certo per il fatto che noi donne abbiamo in dote un intuito profondo che entra in gioco senza sforzo, ma lo intuisce soprattutto perché lei ha pagato nella sua stessa carne il prezzo versato ai falsi dei – i suoi sei amanti – incapaci di dissetare. Quest’uomo ora sta davanti a lei e a lei si offre come “il Settimo”. Nella Bibbia il numero sette indica pienezza, perfezione, compimento: Gesù sembra essere il solo in grado di colmare e placare la sua sete. Gesù è lo Sposo dell’umanità e l’esperienza che ne facciamo è che la sua presenza in noi aderisce perfettamente a quel “vuoto del nostro cuore che – come dice Blaise Pascal – ha la forma di Dio”. Quante volte la sua presenza, le “gocce” della sua Parola hanno dissetato e risanato i terreni aridi del nostro cuore? Ma quante volte noi ce ne dimentichiamo e torniamo a cercare in mille altre cisterne screpolate!

Gesù sta annunciando a questa donna un’acqua diversa e inconsapevolmente lei sta già attingendo a quella fonte di acqua viva, sta bevendo l’acqua di una Parola che le scende dentro lieve, come un lavacro di rigenerazione, perché la Parola è così, Gesù è così, Dio è così: non aggredisce, non punta il dito, non umilia… non rimprovera. Non so qual è la vostra esperienza di Dio ma, personalmente, Dio non m’ha mai rimproverata, eppure non posso dire di non aver sbagliato! Sì, ci sono i rimproveri degli uomini, ma quella è un’altra cosa. Dio non ci rimprovera, semmai ci corregge e ci dà la grazia per cambiare.

Mi viene sempre in mente quel racconto rabbinico secondo cui, dopo il peccato, quando Dio scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre mettendo dei cherubini a guardia dell’ingresso (Gn 3,24), non lo fa perché li sta punendo e non vuole che rientrino. No! Li mette perché il giardino non resti incustodito, visto che anche Dio esce con Adamo e Eva che con il peccato si sono allontanati da Lui. Dio è sempre con noi! Questo è già un motivo di grande speranza per noi che tante, forse troppe volte, come questa donna, cerchiamo da soli di rispondere alla sete che portiamo dentro. In fondo è questa l’origine, la radice di ogni nostro allontanamento da Dio.

«Dammi quest’acqua perché non venga più qui ad attingere».
Gesù conduce pian piano la donna a svelare quel che le è accaduto, perché «la Parola è viva ed efficace – dice la Lettera agli Ebrei – e penetra fino al punto di divisione … svela pensieri e msentimenti … tutto è nudo e scoperto davanti a Dio» (Eb 4,12-13), che non sta come giudice, ma come un Padre, come uno Sposo. Quel “tutto è nudo davanti a Dio” richiama quella “nudità” dei nostri progenitori nel paradiso terrestre; dice la Genesi: «erano nudi e non ne provavano vergogna” (Gen 2,25).

Dunque, la richiesta di Gesù: «Va a chiamare tuo marito» fa risuonare quell’amorevole e accorato «Ma dove sei?» di Dio. «Non ho marito». La donna non sta mentendo e Gesù lo sottolinea: «Hai detto il vero». Questa donna infatti sta confessando: «Non ho trovato nessuno che potesse estinguere la sete che mi porto dentro». Questo è
il dramma di questa donna e può essere il dramma anche di ciascuno di noi.

«Se tu conoscessi il dono di Dio».
È chiaro che il dono è Gesù stesso. È Colui che, dice S. Paolo, «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20) e dal suo fianco trafitto in croce ha fatto scaturire sangue e acqua, simbolo dei Sacramenti attraverso cui ogni giorno lo possiamo incontrare; proprio Lui vivo, lo possiamo ascoltare, lo possiamo toccare, lo possiamo mangiare… Possiamo fare quotidianamente esperienza di una vicinanza inaudita, una Presenza in noi e noi in Lui.

Qual è il pozzo al quale noi attingiamo? Non è forse l’Eucarestia il “pozzo” al quale poter attingere tutto ciò di cui abbiamo bisogno: acqua, luce, sapienza, forza, consiglio, conforto e nutrimento? Nel momento del bisogno, della prova, della fragilità, a quale fonte attingiamo? Ci ricordiamo che c’è un Dio che è Tutto per me? Oppure siamo come questa donna dai “cinque mariti più uno” che non è suo marito, ovvero Dio nella nostra vita è uno tra i tanti idoli che venero? Sì, c’è Dio ma poi mi disseto al mio bisogno di apparire, bevo alla sorgente del mio bisogno di dominare, non sono mai sazio di possedere, seguo il miraggio del successo… quanti appetiti ci abitano! Dio si offre come “il Settimo”, ovvero come la mia pienezza, colui che disseta ogni mia aridità con il fiume di acqua viva della sua Parola e della sua presenza nei Sacramenti. Allora proviamo a riscoprire che dono di Dio è anche questa sete che portiamo dentro e che quel pozzo dove Gesù vuole incontrarmi sono proprio io e Lui – la Sapienza eterna creata prima delle stesse sorgenti di acqua (Pro 8) – è l’unico in grado di estinguere la mia sete.

Ogni giorno allora possiamo sorseggiare quell’acqua che disseta in modo insperato la nostra vita; ogni momento possiamo attingere alla Parola che non solo disseta e nutre, ma illumina, risana, guarisce, conforta, eleva e ricolma, e ai Sacramenti che ci “ungono” di Grazia.

Infine, come questa donna, siamo chiamati a portare un annuncio liberante: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Questa donna è libera dal suo passato, non solo non se ne vergogna più e i suoi conti sono azzerati e ha iniziato una vita nuova, ma della sua fragilità Gesù fa un annuncio di salvezza, una Parola che salva. Ma quale Parola salva se non solo la Parola di Dio? E allora Dio può fare, e fa, della nostra fragilità la sua Parola di salvezza nel tempo, oggi. La grazia del Giubileo è proprio questa opportunità offerta a tutti di tornare alla nostra legittima e originaria proprietà, perché questo era per Israele il Giubileo: un anno in cui i conti venivano azzerati e tutti e tutto ritrovava la libertà perduta. Dunque, per noi è l’opportunità di  tornare a quel Dio che dice proprio a te e a me: «Tu appartieni a me e a nessun altro, sei mio/mia e di nessun altro», l’opportunità di ricominciare, di ripartire.

E la conclusione del brano è il più bel complimento che un discepolo possa ricevere ed è l’augurio per ciascuno di noi: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (v. 42). Non lo dimentichiamo: chi è libero – perché liberato – diviene liberante
per gli altri
. Che il nostro desiderio di “attingere alle sorgenti della salvezza” cresca sempre più, sapendo che – come scrive S. Efrem – «se la nostra sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potremo bervi di nuovo ogni volta che ne avremo bisogno».